Samizdat1



SAMIZDAT #1

L'ELEFANTE NELLA STANZA

aka PERCHE’ A TUTTA QUESTA DISUGUAGLIANZA CORRISPONDE ZERO CONFLITTO SOCIALE?



ANCORA RINCHIUSI NELLA DIAZ

Se ha davvero ragione Branko Milanović, se l’elefante è sparito, beh, dalle nostre parti, nell’Italia Post Pandemica, non sembra esattamente così. Piuttosto, in un Paese già segnato da profondissime disuguaglianze (tra redditi e patrimoni, generazioni, città, livelli di educazione e salute, possibilità di vita), non è tanto sorprendente che la pandemia le abbia ulteriormente esacerbate (si veda l’aumento dell’indice di Gini o i drammatici dati della povertà educativa e sanitaria) quanto che a questo non stia corrispondendo, nemmeno dopo due anni di pandemia, un’analoga esplosione di conflittualità sociale

Durante i mesi di lockdown era certo difficile aspettarsi delle piazze piene e arrabbiate, per quanto, al di là di Napoli, gli episodi di protesta pubblica siano stati pochi e di scarsa partecipazione. Adesso è la volta dei novax e di chi si oppone al pass sanitario ma, anche in questo caso, almeno per il momento, non sembra esserci nulla di paragonabile a un reale movimento consistente e conflittuale (questo non impedisce, però, che a livello di narrazione istituzional-mediatica e conseguente percezione pubblica il pericolo venga ingigantito, esagerato).

Certo, sempre di questi mesi è anche  il mirabile esempio degli “insorti” della GKN Firenze, e nessuno qui intende sminuirne la rilevanza, ma, nella speranza di essere smentiti, a 20 anni da Genova siamo qui a chiederci: è stato quello l’ultimo grande esempio di un movimento antagonista e trasversale, capace, pur con tutti i limiti e le contraddizioni, di portare in piazza (sulla pubblica piazza) centinaia di migliaia di italiani?

E se questo è il caso, cosa ci è successo in questi 20 anni? Perché, di fronte all’evidenza di una crescente e sempre più intollerante disuguaglianza che da socio-economica si fa generazional-ambientale (i turisti nello spazio mentre il Generale Sherman rischia di bruciare) siamo di fronte all’altrettanto evidente diminuzione del conflitto sociale o, meglio, delle sue forme esplicite e organizzate?

La prima cosa che dobbiamo dire è che non sta succedendo soltanto da noi. Se, anche qui, nessuno discute l’importanza di movimenti tra loro anche molto diversi come Black Lives Matter o i Gilet Jaunes, resta il fatto che si tratta quasi sempre di processi che iniziano e si concludono in un tempo breve, raramente riescono a connettersi con le infrastrutture istituzionali e decisionali, raramente riescono ad andare oltre un impatto solo sovrastrutturale (ci riuscirà AOC?). Fra tutti, forse, insieme proprio alla corrente sandersiana del Democratic Party, il movimento che sta mostrando maggior vitalità e resistenza è quello dei Friday for Futures, ma, anche qui, dopo la pubblicazione del Report IPCC e mentre si moltiplicano all’infinito i casi di greenwashing e di un uso strumentale dell’ambientalismo da parte del capitalismo peggiore, è lecito chiedersi: con quale impatto trasformativo reale?  

 

 

ABBIAMO VINTO NOI

E dunque: perché tutta questa fatica nell’organizzare ed esplicitare un conflitto sociale le cui ragioni si trovano ovunque, dallo scroll sul cellulare a una passeggiata in centro?

Proviamo a dare alcune parziali risposte.

Prima osservazione: questo tardo neoliberismo o come lo si vuole chiamare appare particolarmente combattivo, violento, spietato, lo dimostrano non solo i dati sulle inconcepibili ricchezze accumulate dai pochissimi e fortunati, ma ce lo dicono anche le biografie di questi pochissimi, che si tratti di accaparrarsi pezzi di Nuova Zelanda per salvarsi, loro e solo loro, dal disastro climatico, o della corsa allo spazio per ottenere molteplici effetti contemporanei: illudere il 99% che ci sia un Piano B al cataclisma planetario, farsi venerare ancora come eroi e visionari, sostituirsi sempre di più nell’immaginario allo Stato e alle sue Agenzie (dateli a noi i vostri soldi, anche le tasse, sì le vostre tasse datele a noi che non ne versiamo manco mezza). Un capitalismo che vive e diffonde un discorso unico aggressivo e pervasivo, dunque, l’ultima ideologia emersa dalla macerie del Muro, quella narrazione potente che invece sembra mancare, appunto, al restante 99%. Se i ricchi fanno squadra, anzi esercito, tutti gli altri non riescono a trovare denominatori comuni, un discorso condiviso e il risultato è quello riassunto da Warren Buffett nella celebre frase La lotta di classe esiste e l’abbiamo vinta noi. 

Non finisce qui. Questo capitalismo è, come è noto, un tecno-capitalismo e in forza di programmi e dispositivi sempre più avanzati si sta diffondendo la cosiddetta societa’ della sorveglianza: dal social code cinese alle telecamere a riconoscimento facciale che riempiono le strade di Londra (ma anche di Como, Udine, Torino), non sembra esserci differenza alcuna tra est e ovest o tra nord e sud del mondo. A multinazionali e Governi piace da matti l’idea di poter registrare, monitorare, controllare i propri cittadini e i loro comportamenti in nome della onnipresente promessa di “sicurezza” (dalla criminalità, dall’immigrazione, dal terrorismo, dal virus… sì, certo, la pandemia, anche in questo caso, ha ulteriormente accelerato il processo in corso). È evidente che cittadini più sorvegliati (o che sono convinti di esserlo) saranno da una parte portati ad adottare comportamenti sempre più aderenti alla norma / non conflittuali (a livello individuale e collettivo), dall’altra a farsi a loro volta primi promotori di suddetti comportamenti, in un upgrade deciso e a suo modo geniale della Stasi DDR (questi due anni pandemici di escalation ciclica nella ricerca di un nemico, di un diverso, dai runner ai novax, qualcosa insegnano). 

Ecco allora che, come le proteste di Hong Kong hanno già prefigurato, le lotte di piazza del prossimo futuro non potranno che essere tecnologiche. E senza scomodare troppo il futuro, il presente e il recente passato vedono lavoratori della logistica in sciopero pestati da picchiatori assoldati dall’azienda e, prima ancora, studenti liceali denunciati per non aver rispettato, con il loro semplice manifestare, le misure del Decreto Sicurezza di Salvini.

 

POTERE, POTERE, ANCORA POTERE

E, tuttavia, quanto sopra non basta ancora a spiegare il fatto che all’aumento della disuguaglianza non corrisponda un aumento della conflittualità sociale, piuttosto il contrario. E allora, forse, il motivo decisivo risiede nella disuguaglianza stessa, ovvero nel suo essere, letteralmente, una enorme differenza di potere tra le parti in gioco. 

Perché quello che è avvenuto in questi ultimi decenni è, appunto, un gigantesco mai così veloce shift di potere, economico e non solo. Se il tuo titolo di studio non serve più ad assicurarti un posto di lavoro, hai meno potere. Se il tuo lavoro non garantisce più uno stipendio capace di migliorare la tua condizione socio-economica, hai meno potere. Se l’ascensore sociale tuo e dei tuoi coetanei è bloccato da anni, hai meno potere. Se i diritti civili conquistati sono quasi neutralizzati dalla perdita di autonomia economica, hai meno potere. Se, di contro, i tuoi avversari hanno un potere enorme e ogni giorno lo accrescono, ecco che il gioco è fatto.

Difficile capire come si possa ridefinire un campo di gioco più equilibrato. Al momento di sicuro non lo sta facendo la pandemia, e non ci sono certo segnali che ci penserà il disastro climatico (come sappiamo, sono processi legati a doppio filo) e, ovviamente, sarebbe soluzione ben triste dover ricorrere a degli eventi così drammatici per rendere il mondo un posto un po’ meno diseguale.

L’altro grande storico riduttore di distanze, il lavoro, non sembra certo passarsela bene, è anzi anch’esso, da decenni, sotto attacco ((disoccupazione, precariato, diminuzione potere d’acquisto dei redditi da lavoro).

Anche per ovviare a questi ultimi fenomeni, ovvero la crescita di lavoratori sempre meno tutelati e sempre meno in grado di contrastare il proprio rischio di vulnerabilità economica e sociale, da tempo si sta ragionando e in alcuni casi sperimentando in termini di reddito universale di base che, ricordiamolo, deve essere: periodico (non una tantum), in moneta (libertà totale di impiego da parte del ricevente), universale (per tutti, senza selezione/dimostrazione dei mezzi), individuale (non familiare) e non correlato ad alcun impegno da parte del ricevente (nemmeno alla ricerca del lavoro). Con una storia antica e promosso negli ultimi anni soprattutto come risposta all’automazione tecnologica che espelle i lavoratori meno qualificati dal mercato del lavoro, si sta dimostrando efficace anche nel rendere possibile il rifiuto di una proposta di lavoro se economicamente non concorrenziale con il RU stesso. 

Non è un caso che questo aspetto sia utilizzato in queste settimane, dalla politica e dai media, per criticare il reddito di cittadinanza (che, comunque, mancando delle caratteristiche sopra indicate, non è nemmeno ancora un reddito universale di base propriamente detto), per minacciarne addirittura l’abrogazione tramite referendum. Anche questa piccola grande forma di potere, il “poter dire di no”, risulta intollerabile a chi il potere non vuole mollarlo. Perché questo potere negativo, il sottrarsi al gioco della disuguaglianza, è in realtà pieno di possibilità e agli attuali potenti della Terra fa molta moltissima paura. Così come fa molta paura che questo potere possa organizzarsi e confliggere. E hanno ragione ad aver paura.

 

Bibliografia minima

Il capitalismo della sorveglianza, Shoshana Zuboff

La grande livellatrice, Walter Scheidel 


Settembre 2021


Share by: